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App-Interviste: 1. Giovanni Pallotti

Riflessioni e curiosità dal Talk at Apple con la band di Marco fino alla vita in sleeping bus!

Il Talk at Apple ha fatto incontrare con il pubblico i musicisti che da sempre accompagnano Marco. Una bella occasione che ha portato l’idea di spostare questi incontri anche qui, sulla App, sempre più chiave con cui entrare nel mondo artistico di Marco.

“Il talk at Apple credo sia stata la prima occasione in cui il pubblico di Marco è entrato in contatto diretto con noi, scoprendo tutto ciò che c’è dietro la realizzazione di un disco o di un live”, racconta Giovanni Pallotti, da sempre bassista di Marco, che abbiamo incontrato per questa intervista esclusiva per l’App.
“Mi ha colpito moltissimo la curiosità delle persone, il loro interesse nel capire cosa porti a realizzare ciò che loro poi ascoltano. Questo confronto è stato interessante anche perché mi ha portato a riflettere davvero sulle cose: nel lavoro molto spesso si fanno le cose anche senza riflettere, si fanno e basta, si cerca di dare sempre il meglio di se stessi e si resta concentrati su quello che si sta facendo. Se invece devi raccontare cosa hai fatto, come lo hai fatto, ecco che sei in qualche modo “costretto” a ragionare ed è bello farlo perché ti rendi davvero conto di quale sia stata la natura del processo creativo, l’interazione con le altre persone… e persino come ti sei comportato all’interno di questo processo. Un momento sicuramente costruttivo”.

Parlaci del primo ricordo che hai della collaborazione con Marco.

“Io e Marco ci siamo conosciuti prima che lui arrivasse a XFactor, ma il ricordo più vecchio e a cui sono più legato è quello del primo vero palco condiviso insieme, lo spettacolo fatto per la trasmissione prima della finale. C’era da preparare questo spettacolo, ma Marco non poteva partecipare alle prove perché impegnato in televisione. Preparammo tutto noi, una cosa un po’ pazza, e quando arrivò il giorno non li avevamo ancora provati insieme. Quella esibizione in realtà fu una specie di prova davanti al pubblico. Sono molto legato a questo ricordo perché prima di cominciare lo spettacolo ho incontrato Marco nei corridoi (noi eravamo arrivati prima, lui era appena arrivato) e la sua prima reazione fu quella di abbracciarmi. Ci abbracciammo in corridoio. Mi piacque molto questa cosa, perché significava quanto lui non vedesse l’ora di rivederci, di suonare. Stava facendo quella esperienza molto profonda e importante, ma evidentemente gli era mancato il contatto con i musicisti, con la musica. È stata bella la sua reazione nel vedermi.”

Il lavoro di Atlantico in studio da Pagani: cosa ha significato per te vedere il nuovo album “suonare” fin dall’inizio, in una sorta di nuova prima volta insieme a Marco?

“La fase di preparazione di Atlantico alle Officine Meccaniche è una delle esperienze che ricordo con più affetto e che ricorderò così in tutta la mia carriera. Perché scegliere di lavorare così su quel disco per me ha significato molto: prendere i brani appena scritti e farli suonare da subito, provare da subito a cucire loro un vestito e farlo con gli strumenti in mano è stata una scelta anche coraggiosa: sappiamo che i procedimenti per la realizzazione dei dischi hanno molto spesso una base in studio, lavorando con il produttore e chiamando di volta in volta i musicisti quando servono ma è lo studio e il rapporto con la programmazione dei suoni che la fa da padrone nella maggior parte dei casi. Invece, scegliere di partire dagli strumenti - basso, chitarra, batteria e pianoforte - per suonare i brani secondo me è stata una scelta coraggiosa e anche un po’ rivoluzionaria rispetto a quella che è la tendenza oggi. E credo che poi questa cosa si percepisca quando si ascolta il disco, che è musica nata in sala prove, da quattro persone insieme che, con gli strumenti in mano, scoprivano la vera natura del brano.”

Parliamo del tour: dal tuo punto di vista quali sono le differenze principali rispetto agli altri tour di Marco?

"Sono molto contento e soddisfatto di come sta andando questo tour e a guardare il pubblico direi che sta andando bene!
Dal palco si ha una percezione limitata dello spettacolo, ma tutti quelli che vengono mi raccontano di uno show importante, maturo d’impatto, elegante, in linea con quello che è il disco e questo mi rende molto soddisfatto. Da un punto di vista strettamente personale sono felice perché grazie al confronto con gli altri musicisti della band e in particolare con Christian Rigano, il direttore musicale, sono riuscito a racchiudere in questo spettacolo tutte quelle che sono le mie competenze, non soltanto quelle strettamente legate al basso elettrico, il mio strumento, ma anche quelle più vicine al mondo della produzione: mi sono creato una postazione in cui riesco a esprimere me stesso come musicista più che come solo bassista. E questa cosa mi soddisfa molto.”

Per concludere, raccontaci come si vive sullo sleeping bus in tour. Qual è il ricordo più simpatico fino ad ora?

“Lo sleeping bus è quella cosa che ti fa ricordare quanto sei fortunato ad esserti realizzato come musicista: se non fosse per questo, non credo lo avrei sopportato! È divertente, è come una gita per me, quando suoni in Europa e giri in sleeping bus è come tornare ai 16-17 anni quando andavi in gita, appunto. È bello perché condividi qualsiasi momento con altre persone con cui vai d’accordo, e quando c’è un bel gruppo di lavoro si crea per forze di cose un clima di grandissimo affiatamento, impari a conoscere gli altri bene, in profondità.
È bello, una esperienza molto divertente e anche costruttiva che crea legami forti, destinati a durare nel tempo. Un ricordo bello è legato a Nico Degni, che cura la sicurezza di Marco, che in Germania ha comprato una cassa e quella cassa ha trasformato l’atmosfera delle notti del bus: ogni sera è d’obbligo creare un dj-set con canti, balli… Lo sleeping bus adesso è una specie di club itinerante!”